Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

domenica 15 settembre 2013

«Era un piccolo mondo e si teneva per mano»
Enrico Tealdi, EFFEARTE gallery, Milano
19 settembre - 15 novembre 2013

ring, 2012, tecnica mista sua carta, 16 x 23 cm
courtesy l'artista


Il passato prossimo è la dimensione prevalente in cui sorgono e vivono le opere di Enrico Tealdi, affini in questo senso alla poetica di Umberto Saba. Nel «piccolo mondo» che «si teneva per mano», evocato dal poeta nel primo verso della lirica dedicata alla figlia Linuccia, ben si rispecchia l'universo di immagini intenzionalmente imperfette, polverose e sgranate dell'artista. È un mondo passato, ma non da molto, il cui calore continua a riscaldare il presente, le cui immagini rarefatte – riprendendo ancora Saba – illuminano «la tua memoria», cercandoti il cuore «come il pugnale d'un nemico»: preciso, risoluto, affilato.
A differenza del passato remoto, ormai innocuo perché privo di qualunque legame biografico e intimo con il soggetto, il passato appena trascorso è contraddistinto da una peculiare paradossalità temporale e psicologica, che Theodor W. Adorno ha colto con grande lucidità: «Il passato più recente suscita regolarmente l'impressione di essere stato distrutto da una serie di catastrofi» (Minima moralia, Af. 29). La perdita catastrofica, sentita cioè come irreparabile e penosa, riguarderebbe dunque una realtà ancora emotivamente vicina, che trova il suo topos classico nell'infanzia. Il confronto con questa abissale prossimità dell'altro ieri, inesorabilmente trascorso e ormai irraggiungibile, ma di cui si continua a percepire l'inconcluso processo di rarefazione, è forse il movente più autentico di Enrico Tealdi, che con i suoi lavori arresta per un momento e fissa in immagini proprio quella rarefazione quasi impercettibile, caratteristica del ricordo vivo.

discorso breve, 2012, tecnica mista su carta
courtesy l'artista

Per salvare queste prossimità interiori, Tealdi si serve di una singolare tecnica che parte dalla fotografia, impressa tramite acido esclusivamente su carta, e la “sporca” con la pittura (acrilico, tempera, colori in polvere, grafite, gomma lacca) per ricreare quella particolare patina fatta di polvere impastata di ricordo, tipica dei vecchi album fotografici.
I suoi quadri (a eccezione dei lavori più grandi) non si esauriscono nel supporto cartaceo, perché ogni opera è la sintesi compiuta di due elementi inscindibili: carta e cornice. Tealdi sceglie personalmente e con estrema cura le cornici: usate, vecchie, vissute, a volte consunte e spaccate, le recupera da quelle inesauribili riserve di passato prossimo che sono le botteghe o le bancarelle dei rigattieri, mettendole in diretta e profonda risonanza con le raffigurazioni che sono chiamate a incorniciare. In tal modo vengono trasferite dalla sfera del significante a quella del significato, non restano mero supporto materiale, ma diventano rappresentazione tout court, parte integrante del messaggio artistico. Ogni quadro è così un oggetto speciale, un quadro-scultura diverso da tutti gli altri, impossibile da replicare.



igloo di zucchero, 2013, 27 x 32,5 cm
courtesy l'artista

Nella produzione complessiva di Tealdi predominano campiture gessose e come stuccate, quasi sempre semideserte (spiagge, cieli e spazi aperti). Tutto sembra attraversato da un aspetto essenzialmente ludico, ben visibile, per esempio, in molti lavori inclusi nella selezione in mostra come Pomeriggio (2012), Rete (2012), Faro (2013). Nell'infanzia, passato prossimo di ciascuno, oggetti propri e altrui, animali e persone (coetanei o adulti) sono visti unicamente in funzione del gioco; la realtà circostante è interamente immersa nel tempo sospeso e nello spazio protetto del gioco: «Là eravamo nello spazio tra giocattolo e mondo». Questo straordinario verso di Rainer Maria Rilke ci offre una chiave per decifrare le atmosfere soffuse create da Tealdi, dove ogni cosa sembra emergere dall'album di famiglia e pare affetta, appunto, da quell'insopprimibile coloritura ludica che le si attribuiva da bimbi, affievolitasi poi nel passaggio da puer ludens a homo faber. Essa risulta più vivida in alcuni gesti: le corse sulla spiaggia, il bagno in mare, le conversazioni e le passeggiate degli adulti sul bagnasciuga, istanti preziosi e vivi che misteriosamente rispondono, dialogano, interrogano e al contempo rassicurano, accompagnano, tenendo per mano l'adulto come facevano con l'inconsapevole fanciullo.

pomeriggio, 2013, tecnica mista su carta, 23 x 28 cm
courtesy l'artista

Nell'iconografia di Tealdi, il “filo” tenuto in mano, appeso o errante, annodato o sciolto, spezzato o teso è un tema assai ricorrente. Tutto indurrebbe a supporre che per l'artista esso sia la metafora o, meglio, il simbolo più pregnante della sua poetica, incentrata sul bisogno di trattenere la prossimità, di tenerla per mano. Cordicelle penzolano raminghe, oppure uniscono realtà distanti, cingono corpi e oggetti, si attorcigliano, aggrovigliano e ammatassano, mai però dando la sensazione angosciosa di opprimere e vincolare: annodano esperienze serene, estranee alle arcaiche trame del dolore acuto e irreparabile o dell'inadeguatezza esistenziale. Sul piano concettuale ricordano quelli che Sigmund Freud chiamava «fili mentali» (Gedankenfäden), ovvero liaisons non meramente ideali tra passato e adesso, tra infanzia ed esperienza odierna, che nei lavori di Tealdi si fanno immagine tra pensiero e disegno, tra cervello e gesto artistico. Simili al filo che Teseo lasciava dipanare per uscire dal labirinto, consentono inoltre di rintracciare percorsi complessi, temporali anziché spaziali. Non a caso, Freud parla anche di «tracce (o impronte) del ricordo» (Erinnerungsspuren): lo psicoanalista sembra alludere con gergo popolare all'idea che i ricordi, in noi, siano calchi delicati nel tempo, appena percepibili, che può rintracciare soltanto chi conosce perfettamente il territorio interiore per averlo percorso in continuazione a ritroso, cercando impronte e al contempo lasciandone a sua volta di fresche.
Alla stregua di una variazione sul tema dei “fili mentali”, vi è un gruppo di lavori caratterizzato dalla presenza di lacci circolari che, come fumetti senza scritte, aquiloni scheletriti o pietre porose dalla densa levità, seguono le rare figure umane rappresentate . Di primo acchito, sembrerebbero definire «province finite di significato» (Alfred Schütz): porzioni fisiche o semantiche di realtà che il soggetto stesso ritaglia nella complessità del mondo e del passato, grazie a una sua proiezione attiva di tipo emotivo o conoscitivo. Tuttavia, rovesciando il rapporto, può ben darsi, che quelle porzioni circoscritte esistano da sempre, siano cioè la porzione di passato prossimo assegnata ab origine a me, alla mia personale memoria. Le cordicelle che ne discendono – sembrano suggerire le opere – non sono state lanciate dal soggetto nell'atto di catturare una frazione di mondo per impossessarsene, ma forse sono predestinate a un preciso individuo, e solo a lui. Sta a quella singola persona prendere in mano il filo destinatole e instaurare un legame con il cosmo di ricordi, esperienze ed emozioni dal quale esso deriva e al quale può immediatamente ricondurre.

faro, 2013, tecnica mista su carta
courtesy l'artista

Quei fili, naturalmente, sono ancora troppo corti per poter raggiungere i ragazzi, i quali, a differenza dei grandi, non hanno un passato prossimo cui guardare, poiché anagraficamente sono ancora troppo vicini all'infanzia per poterla osservare dalla prospettiva del ricordo e sono completamente protesi in avanti verso l'età adulta. Ma che cosa succederebbe se – come accade ai due tredicenni protagonisti del romanzo di Ray Bradbury Il popolo dell'autunno, ammaliati dall'atmosfera stregata di un inquietante luna park – uno strano imbonitore mettesse a disposizione una giostra-macchina del tempo che, con pochi giri, consentisse di bruciare le tappe e diventare subito adulti? I ragazzi crescerebbero d'un fiato, ma il tempo non vissuto tra la corsa sul carosello magico e la nuova vita da adulti sarebbe vuoto, diametralmente opposto al tempo denso, colmo, indagato e trattenuto nelle opere di Tealdi.
Il luogo che, nell'immaginario comune, dovrebbe ospitare il divertimento più spensierato, nel romanzo di Bradbury presenta invece un volto di angosciante decadenza: «Visto da vicino il luna park era fatto di funi, di tela mangiata dalle tarme, di lamiera consumata dalla pioggia e imbiancata al sole». La vetustà del luna park e la sensazione che appartenga a un altro mondo, legato a tradizioni e consuetudini estranee alla nostra quotidianità, ne fanno un Paese dei Balocchi misterioso e conturbante, dal quale ci sentiamo attratti e al contempo ingannati. Un'ambivalenza che sembra caratterizzare anche un gruppo di opere recenti di Enrico Tealdi: giostre, caroselli e tendoni sono ricoperti da una coltre fuligginosa, che spegne la variopinta allegria cui normalmente vengono associati. Vestigia da poco abbandonate di una trascorsa e inadempiuta promessa di periodica e fugace felicità, rivelano la perdita della loro antica funzione ricreativa nonché la loro inservibile e disabitata monumentalità. La medesima cui allude il titolo scelto dall'artista, ispirato al romanzo Gita al Faro di Virginia Woolf: «Il Faro che avevano visto oltre la baia per tutti quegli anni era una torre nuda su un nudo scoglio». Agli occhi del navigante il faro appartiene al mondo reale del lavoro, della tecnica, mentre da terra vive in una dimensione simbolica e immaginaria, punto di riferimento più interiore che geografico il quale, nella sua archetipica singolarità, al pari della giostra abbandonata, emana sensazioni non sempre gradevoli.

riflessi in un interno, 2013, tecnica mista su carta
courtesy l'artista

In questa nuova serie di lavori, connotati da un'atmosfera emotivamente più cupa e meno limpida rispetto al percorso artistico precedente, Tealdi sembra inoltrarsi in ambiti finora non sondati dalla sua ricerca, ai quali appartengono anche le cornici bruciate e le superfici annerite di Riflessi in un interno (2013). Instaurando un'associazione visiva immediata con oggetti carbonizzati scampati a un incendio, suscitano in noi quel senso di malinconia e disagio dovuto al contatto con qualcosa di impuro. Sembra quasi che l'artista abbia deciso di sospendere per un momento il suo viaggio a ritroso nelle estese lande della memoria per dedicarsi, esplorando il genere del ritratto, a un'indagine più schiettamente concettuale.
In maniera tutt'altro che ingenua, Tealdi utilizza le fotografie di alcuni spazi espositivi, da lui stesso scattate in occasione di sue precedenti mostre, per suscitare nell'osservatore, che qui le vede appese alle pareti di un altro spazio espositivo, la sensazione di trovarsi dinnanzi a una serie di scatole cinesi o quadri-matrioska, un divertissement che rimanda ancora una volta alla sottile vena ludica dell'artista: siamo in presenza di una galleria, raffigurata dentro a un quadro, esposto in una galleria. Il senso artistico del quadro si compie esclusivamente durante la sua esposizione, nell'interazione con lo spazio e i visitatori della galleria reale: nessun altro contesto, se non la mostra (che entra così a far parte integrante del quadro, della sua semantica, donandogli un'impronta performativa), potrebbe rendere giustizia al suo specifico significato concettuale. Ci sembra dunque di intuire che il titolo Riflessi in un interno non si limiti a descrivere solo l'opera fisicamente appesa alla parete, ma anche la situazione che essa crea quando entra in contatto con un pubblico.
All'interno di questa struttura complessa, Tealdi allestisce un articolato gioco di riflessi e sdoppiamenti, che instaura un duplice parallelismo: da un lato, tra gli spettatori reali e quelli del ritratto, tra noi che osserviamo loro e costoro che si osservano; dall'altro, tra il nostro riflesso sul vetro annerito e il loro riflesso su uno dei quadri raffigurati dentro al quadro reale. Che l'immagine ci venga restituita da uno specchio o da un quadro non cambia molto – sembra dirci l'artista – perché il confine tra i due è labile: uno specchio può essere opera d'arte attraverso il riflesso (come nei quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto) e un'opera d'arte può essere specchio attraverso la riflessione, intesa in senso sia ottico sia cognitivo.
L'artista inoltre dimostra di conoscere l'accorgimento compositivo, ricorrente nella storia dell'arte, di far emergere per contrasto, da una cornice d'ombra, la scena centrale di un'opera. Ne è un esempio magistrale La lettera d'amore (1669-1670) di Jan Vermeer, che introduce l'osservatore a un evento privato attraverso il vano della porta di un vestibolo oscuro. Analogamente, graffiando solo in parte la superficie annerita del vetro, Tealdi ricava una sorta di mascherino (una cornice nella cornice) simile a quello utilizzato nel cinema – specie nei cosiddetti keyhole movies d'inizio Novecento – e invita deliberatamente lo spettatore reale a guardare dalla fessura, inducendolo a un voyeurismo sui generis nei confronti degli spettatori raffigurati. Ma questo meccanismo potrebbe riprodursi durante la mostra e lo spettatore reale, ignaro, potrebbe essere a sua volta sorvegliato e magari fotografato in vista dell'eventuale realizzazione di opere future, in un ciclo creativo virtualmente infinito.  


***testo pubblicato sul catalogo edito in occasione della mostra
«Era un piccolo mondo e si teneva per mano. Enrico Tealdi.»
presso EFFEARTE gallery, Milano, 19.09-15.11.2013***