Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

mercoledì 11 settembre 2013

Manuele Cerutti

livelli corporei, 2013, olio su tela, 46x62 cm
courtesy l'artista


Per affrontare lo strato più profondo della complessa arte proposta da Manuele Cerutti, impregnata di un elemento imponderabilmente perturbante, è necessario stabilire subito un assunto fondamentale: gli oggetti raffigurati si inscrivono in una poetica del “fossile” o, meglio, della fossilizzazione in quanto processo.

L’artista ritrae cose da poco, povere e inoffensive, cose che conosce, possiede o rinviene, e che diventano parte di un curioso ed eterogeneo repertorio: bacche, legni, sassi, pietre, ossa, utensili ecc. L’oggetto presentato è quasi sempre materia inorganica e, anche quando tale non è, il suo aspetto viene invincibilmente ricondotto, attraverso una curiosa mimesi con il morto o mummificazione sui generis, a uno stadio “geologico”, minerale, richiamato anche dalle tinte terrose utilizzate. Pur mantenendo integra la loro unità figurativa, questi oggetti, come la pigna nell’immagine in copertina, sono attraversati da trincee, fori, cavità, ed è proprio da queste zone, solitamente nere o in ombra, che provengono le prime, indefinibili inquietudini avvertite dallo spettatore. Lo studio del vuoto, delle porosità e dei carsismi è molto curato da Cerutti: la sapiente composizione conferisce alla rappresentazione, ripulita e bonificata da ogni presenza organica, un’evidente ambiguità morfologica e una allure, appunto, fossile.

L’aspetto davvero straordinario è che questa fossilizzazione delle forme è ottenuta senza il minimo gesto arcaicizzante: esse sono spontaneamente primordiali attraverso la scelta ponderata del punto d’osservazione e, soprattutto, grazie allo sfruttamento di azzardate possibilità prospettiche. Cerutti non solo elimina programmaticamente ogni possibile riferimento “esterno” all’oggetto dipinto che consenta di coglierne la misura, ma evita anche di adottare lo scorcio più favorevole per renderne chiaramente intelligibile la fisionomia, proponendo visioni inusitate, certamente verosimili, ma che confondono e impediscono di stabilire le dimensioni reali. L’oggetto, fuori scala, entra in una soglia di incertezza e indecidibilità, risultando quindi sconosciuto: un osso somiglia a una statuetta, una bacca a un teschio, una crepa nel muro al greto di un fiume. Ne deriva un effetto di profondo straniamento, causato dalla mancanza di sicurezza su cosa stiamo guardando.

Eppure la sua arte non è surrealista: rimane sospesa tra consueto e inconsueto, tra veglia e sogno, senza mai attestarsi su una posizione netta. Frequente è l’intenzionale accostamento, sullo sfondo di campiture omogenee e prive di profondità, di elementi estremamente dettagliati ad altri appena abbozzati, come nell’immagine in copertina, dove la pigna tratteggiata in ogni particolare è retta da dita goffe e informi. Con questo stratagemma, lo sguardo si concentra sulla pigna, percependo come marginale tutto il resto. Ma in questo «resto» c’è ancora molto, sepolto sotto le velature e i chiaroscuri che Cerutti, riprendendo le tecniche care ai pittori rinascimentali e fiamminghi, impiega per conservare nel dipinto, simultaneamente, più fasi sovrapposte. Spesso le immagini che traspaiono dagli strati sottostanti sembrano avulse da quelle più in superficie, ma è impossibile prescindere dalla loro compresenza: il dipinto genera uno spiazzamento emotivo tra la pigna-teschio fossilizzata e la figura umana viva, delineata sullo sfondo. Tali stratificazioni di pittura e di temi – e ancora una volta si potrebbe rimandare alla “geologia” – permettono di leggere, per così dire, la storia evolutiva del dipinto.

Un tale modus operandi si basa sulle categorie del ripensamento e dell’errore come vive sorgenti creative, dipendenti a loro volta da un’antropologia della vita incentrata sull’esercizio artistico ininterrotto, una delle «antropotecniche» teorizzate dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk. Per l’artista infatti non è importante soltanto il risultato, il dipinto finito – che anzi è in qualche modo sempre un “non finito” – bensì il processo in sé che ha portato alla configurazione ultima, ma mai definitiva. Così i quadri di Cerutti esprimono un’insopprimibile sensazione d’incompiutezza formale e concettuale, quasi mancasse loro una yod o un apice, la lettera e il segno fonetico dell’alfabeto ebraico più piccoli, ma essenziali per dare alle Sacre Scritture il loro senso complessivo e la loro vigenza.

Attraverso questa ricercata incompiutezza, Cerutti evita di feticizzare l’opera d’arte, che ha senso fintantoché continua a suscitare stimoli conoscitivi e rimane irrisolta. Quando un’opera è troppo esplicita, quando non lascia trapelare più dubbi né ambiguità, quando il suo mistero è svelato, è “finita” nel senso che ormai è statica... e allora Cerutti la ricopre con altra pittura, la trasforma, in un serie di ripensamenti in cui il momento più recente conserva l’impronta dei precedenti, arricchendosi visivamente e concettualmente. Solo il mercato dell’arte, solo l’ingresso dell’opera nello stadio dell’alienazione a terzi sembra porre termine al lavorio ininterrotto dell’artista e dare compimento, in un certo senso, al suo operato, trasformando il work in progress in opere finite. Uno di quei rari casi in cui la vendita non salva l’opera dall’oblio, ma dal suo stesso autore. 


***testo pubblicato in GIDM num. 3, vol. 33, settembre 2013***