Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

giovedì 21 marzo 2013

Mythos Atelier: da Spitzweg a Picasso, da Giacometti a Nauman
Staatsgalerie Stuttgart, 27.10.2012 – 03.03.2013


Piet Mondrian, Atelier in Rue du Départ 26, Parigi, 1921-1936
ricostruzione del 1995, Courtesy STAM Postma NL Delft 2012
(veduta dell'installazione presso la Staatsgalerie di Stoccarda)

Nell'immaginario dello spettatore comune l’opera d’arte nasce in modo misterioso e pressoché spontaneo, come un’entità disincarnata, oggetto perfetto da contemplare e interpretare nello spazio espositivo neutro e asettico del museo o della galleria. È privilegio di pochi iniziati osservarne la genesi entro il concreto spazio della fatica artistica, nel laboratorio produttivo dove essa vede la luce in maniera spesso prosaica, pragmatica, secondo procedure e lavorazioni lente e minuziose, ponderate, frutto di innumerevoli tentativi ed errori.
Uno sguardo sulle “vere origini” delle opere, patrimonio di una ristretta élite, rischierebbe di riportare drasticamente le creazioni stesse al loro status di merce, seppure sui generis, con grande delusione dei consumatori d’arte e di chi attribuisce il loro valore e fascino a un’idea imprecisa, leggendaria e ormai improponibile di genialità.

Il pericolo complementare – corso spesso proprio da quell’élite di iniziati che incensa i romitori produttivi come sede, ormai socializzata, della creatività pura – è di spostare semplicemente quella leggenda dall’opera allo studio dell'artista, un luogo che così finisce per essere circonfuso di un'aura quasi religiosa in quanto scaturigine mitica della creazione, custode dei segreti e dei “trucchi” del mestiere, sancta sanctorum del rito artistico di cui unicamente l’officiante e pochi presenti detengono le chiavi d’accesso.

Soltanto una prospettiva critica, diacronica e comparativa, può relativizzare questa lettura esoterica e sostanzialmente retorica, smitizzando la fucina dell’artista: questo è uno dei maggiori meriti, a mio avviso, della collettiva “Mythos Atelier”, appena conclusasi alla Staatsgalerie di Stoccarda, che ripercorrendo la storia dell'arte da Carl Spitzweg (1808-1885) a Matthew Barney (b. 1967), in una grandiosa campitura teorica che include Matisse, Mondrian, Kirchner, Picasso, Giacometti, Bacon, Freud, Warhol, Beuys, Spoerri, Nauman e Kiefer – solo per citare alcuni fra i nomi più celebri in mostra –, interroga la poetica di ciascun artista in relazione a una tematica forte, ben connotata sul piano estetico-figurativo e storico-artistico nonché sociologico: il suo operare effettivo all’interno del proprio studio.

Nel corso delle differenti epoche l’immagine dello studio ha progressivamente modificato le proprie connotazioni in conformità ai cambiamenti socio-culturali in atto: dallo studio come status symbol di matrice rinascimentale – dove il pittore era ritratto in modo stereotipato, attorniato da tutti i tipici strumenti della professione (tele, pennelli, busti in gesso, tavolozze ecc.) – allo studio di epoca romantica, rifugio austero come la cella di un monaco – emblematico in tal senso Caspar David Friedrich –, che ha diffuso l'idea dell'artista quale figura appartata, introversa e schiva, eccentrica e controcorrente rispetto all'uomo qualunque.

Un altro indiscutibile pregio della mostra è di illustrare, a vantaggio soprattutto del critico d’arte, come l’atelier non si limiti a essere semplicemente il luogo fisico della creatività, giacché si configura spesso come portatore di istanze ideologiche, manifesto delle ricerche artistiche più all’avanguardia, punto d’incontro, di sedizione e di confronto tra intellettuali di ambiti teoretici eterogenei nonché autentica proiezione spaziale di una vis interiore fedelmente rispecchiata dalle opere e dall’estetica dell’artista.

I membri di Die Brücke, per esempio, ne fanno un vero e proprio luogo di culto, un'opera d'arte ambientale che, integrando sculture africane, artigianato e arti applicate, incarna in tre dimensioni la loro stessa filosofia. Nello studio ci si può abbandonare a tutte le licenziosità proibite ed esecrate dai benpensanti. Non solo una scelta artistica quindi, ma una dichiarazione di vita alternativa, proprio come avverrà, poco più di mezzo secolo dopo e oltreoceano, nella Factory di Andy Warhol. Piet Mondrian, da parte sua, applica al proprio studio le istanze del De Stijl, utilizzando sia per il mobilio sia per la decorazione delle pareti colori primari (giallo, rosso, blu, bianco e nero) e forme geometriche semplici (quadrati e rettangoli). Oltre che uno spazio di lavoro e di esposizione, lo studio diventa un Gesamtkunstwerk, nella cui cornice l'artista olandese si fa fotografare in posa per assurgere a icona di se stesso.

Da un lato, osservare l'artista nel proprio studio è come sbirciare dal buco della serratura sorprendendolo nella sua vulnerabilità, talvolta perfino in condizioni di estrema povertà e indigenza, e nella sua intimità. L’atelier è come un volto che rispecchia la personalità dell'artista, una sorta di prosecuzione materiale esterna del suo inconscio, rivelatore, senza possibili censure, del carattere e delle “ossessioni” di chi lo occupa e vive. Alberto Giacometti, poi, aveva instaurato una relazione quasi simbiotica con il proprio studio parigino, al punto che il grigiore dell'ambiente sembrava permeare la sua stessa pelle. Straordinaria in tal senso anche la documentazione fotografica relativa agli studi di Francis Bacon e Lucian Freud.

All'opposto, lo studio può essere interpretato come una finestra aperta verso l'esterno, un palcoscenico, un contenitore di eventi e performance. Nei primi sei video (1987-89) della serie Drawing Restraint, Matthew Barney utilizza il proprio studio come set cinematografico, riprendendosi mentre supera prove fisiche, ostacoli e restrizioni auto-imposte, allo scopo di dipingere sulle superfici dello studio stesso. Analogamente Bruce Nauman, ragionando sul ruolo dell'artista e sulla natura dell'opera d'arte, utilizza il proprio studio non solo come ambientazione, ma anche come soggetto di una serie di opere video. L'apice di questa tendenza “esibizionistica” è il video Painter (1995) di Paul McCarthy, nel quale l'artista statunitense interpreta la parodia di un pittore trasformando il suo studio in un caos di vernici e polluzioni corporali.

Il percorso conoscitivo proposto da Mythos Atelier sembra lasciare inevitabilmente aperti alcuni interrogativi sul presente e l’avvenire del luogo creativo per eccellenza. Nell’odierna società liquida e globale, percorsa da immensi e inarrestabili processi di individualizzazione che hanno travolto anche l’arte contemporanea, polverizzando correnti, gruppi, scuole, filosofie estetiche ecc. rendendo praticamente impossibile un’adeguata vue d’ensemble, l’atelier andrà forse incontro alle stesse sorti toccate alla società che lo ospita e all’artista che esso ospita? Oppure, di fronte al probabile destino di ubiquità, smaterializzazione e delocalizzazione che forse, nell’era digitale pienamente dispiegata, attenderà non solo il lavoro artistico, ma anche lo spazio fisico ed esistenziale in cui si svolge, quest’ultimo riuscirà ancora a convogliare al suo interno, ma con modalità inedite, pensieri, tecniche, realtà materiale, socialità e una visione dell’arte consapevole di sé e all’altezza dei tempi?