Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

martedì 29 novembre 2011

Matteo Massagrande

interno2, 2011, tecnica mista su tavola, 30x30 cm
courtesy Galleria Stefano Forni-Bologna e l’artista

«Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano più. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono più […]. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è lì e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste più. […] Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos'altro e la cosa dinnanzi a te è sparita all'improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.» (Paul Auster, Nel paese delle ultime cose, 1987)

    Gli interni domestici dipinti da Matteo Massagrande sembrano riemergere da un passato ormai svanito. L'Europa della metà del Novecento rivive nei muri scalcinati, negli infissi scrostati, nella mobilia impolverata e nei disegni geometrici dei pavimenti di piastrelle bicrome in cemento. I colori sbiaditi e le figure avvolte da un'atmosfera densa e ben riconoscibile descrivono un orizzonte culturale, un mondo della vita quotidiana e domestica comune, difficilmente riscontrabile al di fuori del Vecchio Continente, come se l'architettura degli ambienti circoscrivesse un ambito di ricordi e suggestioni geograficamente determinato. 
Basta uno sguardo per far riaffiorare dalle immagini il nostro passato, prossimo ma già lontano, siamo catapultati indietro a un'altra quotidianità ormai perduta, quella dei nostri nonni, dei nostri genitori adolescenti o di noi, bambini. Ritornano dal passato i suoni, gli odori, i gesti, le abitudini, tipici di altri modi di vivere e abitare. 

     Attraverso porte spalancate, stanza dopo stanza, la nostra mente ripercorre labirinti domestici un tempo familiari e ci porta a intraprendere un viaggio nei recessi psichici, che da individuale si fa più collettivo. L'etnopsicologia ha infatti dimostrato che l'inconscio, in quanto fatto linguistico, è determinato culturalmente. Il gesto artistico di Massagrande non evoca memorie soltanto private, ma attinge a un lessico più profondo, non propriamente verbale, e plasma, sul piano figurativo, quell'Esperanto che nel presente ancora manca. Dalle vecchie stanze e dalle obsolete architetture di Massagrande sorge, allusa, evocata, quella solida lingua europea che nessuna accademia, finora, è riuscita ancora a redigere. Lingua sepolta, che ogni spettatore dei suoi quadri riesce a sentir parlare dentro di sé. In questo senso, la pittura di Massagrande può essere definita arte identitaria, arte europea nel senso più genuino e impolitico del termine. I suoi quadri sembrano contrapporre scabrosamente l'assenza e impossibilità di un'attuale grammatica europea alla vividezza e al calore del suo simulacro artistico.         

    La lingua dell'artista ha il pregio di implicare anche il proprio limite: a parte il significato generale, ha una fruizione puramente privata, che avviene in quello spazio unico, individuale, in cui l'inconscio personale si salda alle strutture più profonde di una cultura complessa e antica. Ma allora il continente europeo è uno spazio soltanto interiore? In quanto tale l'identità europea si declina solo alla prima persona, si coniuga solo al passato prossimo? Forse essa è davvero raggiungibile soltanto attraverso il linguaggio immaginario del pittore, che salva dall'oblio figure stilistiche uniformi, altrimenti relegate nel “dimenticato”, come scrive Walter Benjamin, altro profondo esploratore dell'identità mitteleuropea: «Giammai possiamo recuperare interamente ciò che è dimenticato. E questo è forse un bene. Lo choc del recupero sarebbe così sconvolgente, che all'istante diverremmo incapaci di capire la nostra nostalgia. Così invece la capiamo, e tanto meglio quanto più profondamente il dimenticato giace in noi. […] il dimenticato ci appare grave di tutta la vita vissuta che esso tiene in serbo per noi. Forse, ciò che rende il dimenticato così carico e fecondo altro non è se non il residuo di un'abitudine lontana, nella quale non potremmo più ritrovarci. Forse è nel suo essere mescolato alla cenere dei nostri rifugi infranti il segreto che gli consente di durare.» (Walter Benjamin, Infanzia Berlinese, 1930 circa) 


***testo pubblicato in GIDM n. 4, vol. 31, dicembre 2011***