Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

mercoledì 22 febbraio 2012

Giovanni Viola


 mare d’inverno, 2011, pastello su carta, 75x90 cm
courtesy Galleria Stefano Forni-Bologna e l’artista

Sarebbe facile definire Giovanni Viola un pittore paesaggista. Sarebbe facile e non del tutto sbagliato, considerando che le sue opere propongono esclusivamente vedute della Sicilia. Tuttavia non sarebbe sufficiente a descrivere la sua ricerca artistica, in bilico fra tradizione e originalità. Viola osa riproporre la rappresentazione del paesaggio, in un’epoca aliena e diffidente verso questa tematica, sovente considerata un mero esercizio stilistico. Il giovane pittore, invece, affronta la sfida – il rischio è essere tacciato di anacronismo – in maniera consapevole e anticonformista.

    La Sicilia dipinta da Viola è molto diversa dall’immagine consueta di terra arida, flagellata dal sole, immersa nel giallo cromatismo delle stoppie. La Sicilia di Verga e Guttuso, difficile, aspra, carnale. Viola fa emergere atmosfere sospese, silenziose, nostalgiche. La luce soffusa si accende appena nella fresca aria del primo mattino oppure si vaporizza in tonalità azzurrine al tramonto. Lo sguardo corre verso l’infinito orizzonte attraverso ampie distese dolcemente ondulate. Di spirito più nord-europeo che mediterraneo, i paesaggi di Viola rispecchiano un animo intimista e meditativo. Il romanticismo introspettivo di Caspar David Friedrich (pittore tedesco, 1774-1840), piuttosto che il realismo documentario della Scuola di Barbizon (dal nome della località francese dove tra il 1830 e il 1870 si ritrovarono diversi pittori dediti alla rappresentazione di scene campestri e rurali), sembra meglio accordarsi alla poetica contemplativa del pittore siciliano. La terra è una striscia sottile ai piedi di un vasto cielo sfumato di indaco, rosa e celeste. A volte, rare nubi rompono la perfezione della superficie, conferendo un impeto di drammaticità alla scena altrimenti statica. Da un punto di vista compositivo potremmo quasi considerarle opere di arte astratta: il colore è modulato in fasce digradanti stese con tocchi leggeri, le forme tendono alla semplificazione e quasi scompaiono diluendosi in velature leggere. Viola sembra assorbire e reinventare la lezione di Mark Rothko (1903-1970). Si può forse leggere, come nelle tele del pittore americano, un anelito all’immaterialità, nel tentativo di staccarsi dall’immanenza delle cose concrete e di poter così tradurre emozioni in campiture cromatiche evanescenti, oltre i limiti imposti dallo spazio del dipinto verso una dimensione quasi teologica.

    Tuttavia, il segreto, il senso più recondito e inaspettato dei paesaggi di Viola può essere individuato in quello che in essi manca. Le tracce di vita umana e animale, nonché i segni della tecnica – la più tipica manifestazione dell’uomo – sono appena percepibili. Si tratta di paesaggi quasi totalmente non antropizzati, disabitati. Mancano, in una parola, i tratti salienti di una cultura. Le tele sono prive di una connotazione temporale e geografica precisa. In questo senso, non abbiamo dinnanzi vedute paesaggistiche tradizionali, ma visioni profondamente utopiche: «Il cielo [è] così infinito che a guardarlo fisso [dà] le vertigini. [...] In questo paesaggio non ci sono figure umane. Non c’è nessuno. Quello che [...] resta è solo lo sfondo: un paesaggio senza figure.» (Murakami Haruki, Norwegian Wood1987).


***testo pubblicato in GIDM n. 1, vol. 33, marzo 2012***