Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

mercoledì 11 maggio 2011

Fabio Adani

attese 3, 2008, acquerello su carta, courtesy l'artista


L'arte di Fabio Adani propone costantemente una prospettiva dall'alto, quasi a volo d'uccello, che scaturisce da un occhio sopraelevato, da una sorta di presenza suprema – analogon pittorico del narratore onnisciente – ovvero da un potere indefinito: se divino o umano, tecnologico o spirituale, onnipotente o totalmente impotente di fronte al mondo terreno che osserva, non ci è dato sapere. L'adozione di questo specifico punto d'osservazione crea vuoti, genera assenze. Mancano i soffitti, le volte, le chiusure superiori, e l'attenzione urge inevitabilmente verso la dimensione del tellus, del suolo, della solidità e materialità terrene, mitigata solamente dall'evanescenza pseudo-mistica dell'ambientazione.

 Tali atmosfere rarefatte richiamano, a prima vista, un contesto premoderno, temporalmente fermo, socialmente "freddo" – per richiamare Claude Levi-Strauss – ossia privo di storia, tecnologia e progresso. Ma a uno sguardo più attento ci troviamo di fronte a un orizzonte di senso diverso. Grazie all'uso sapiente di tutta la gamma di possibilità offerte dalla tecnica ad acquarello, il fruitore dell'arte di Adani ha l'impressione di soffrire di un astigmatismo congenito. Le inafferrabili sfumature monocrome riducono la sua visione a un daltonismo di natura orwelliana, al cui centro emerge la deformazione dello sguardo che subisce l'ottica del potere assoluto. Di fronte si distendono soltanto città fantasma, fortezze solitarie e abbandonate nel deserto dei tartari, le quali, come quinte sceniche spettrali, fungono da vestigia di antiche solidarietà.

 Regna ovunque, nei dipinti di Adani, una sproporzione tangibile tra struttura e singolo, tra umano e milieu. L'individuo è spesso assente o rarefatto come l'ambiente in cui si trova senza appartenervi, senza viverlo. Oppure è minuscolo, in contrasto con la colossalità dello spazio circostante, e volta inesorabilmente le spalle a un sole malato (bassissimo su un orizzonte fuoricampo), o meglio, a una fonte astratta di chiarore che produce ombre lunghissime… ombre vespertine, sempre di tramonto, mai d'alba.

 Si potrebbe dunque definire l'arte di Fabio Adani una pittura "monumentale" nel soggetto ed "eterea" nel medium tecnico, un'arte che tenta, seppure in forme quasi dantesche, o meglio, kafkiane, una spettrografia del potere assoluto e della relativa alienazione umana. Lo si nota per esempio nell’opera della serie Attese qui presentata. La sensazione è di stare in un tribunale, kafkiano appunto, privo di imputati e giuria. Oppure sulla scena di un'esecuzione capitale d'altri tempi, senza plotone né colpevoli, senza condannato ed esecutori. La disposizione delle sedie, tuttavia, allude anche alla svanita possibilità di una terapia collettiva, di una seduta immaginaria resa ormai impraticabile dalla greve assenza dell'umano e dall'oppressivo predominio di un'istituzione sociale decadente.
  
 Qui Adani sottopone il concetto foucaultiano di "eterotopia" a una torsione irreversibile e profetica. Le "alterità spaziali" non sono più limitate ad ambienti circoscritti, ma diventano totali, dilagano. La società nel suo complesso, il mondo intero, l'esistenza umana, non contengono più eterotopie circoscrivibili, ma sono in quanto tali eterotopie tout court. Rispetto alla raffinata produzione di Fabio Adani vale la risposta che Franz Kafka diede per lettera a Max Brod, sodale dello scrittore e curatore delle sue opere postume, quando questi gli chiese se nel mondo vi fosse speranza. Nel mondo c'è molta speranza, scrisse Kafka, c'è speranza a iosa, ma non per noi.


***testo pubblicato in GIDM n. 2, vol. 31, giugno 2011***