Lorenza Boisi, Self Portrait Posing as a Sculpture, 2014 olio su tela, 120 x 100 cm courtesy l'artista |
Pittrice d’incertezze e
possibilità: così si definisce Lorenza Boisi in
un’intervista
rilasciata alla rivista FlashArt un paio di anni fa. Sebbene
non si
occupi programmaticamente di tematiche sociopolitiche
o di critica
dell'attualità, ma abbia «sempre lavorato per rendere tangibile,
condivisibile, un universo interiore», l’artista milanese
entra,
più o meno consapevolmente, in profonda risonanza con il
suo e il
nostro tempo.
La fluidità che connota le sue tele sembra
interpretare
perfettamente quest’epoca della società liquida che,
da metafora sociologica, quasi un calembour intellettuale, è
diventata
chiave di lettura generazionale dell’esistenza nel
capitalismo avanzato
e ormai un mantra di massa. Boisi rappresenta
spesso oggetti investiti da onde o emananti vibrazioni, poggiati o
immersi in fondamenti liquefatti, esseri o cose dalle tinte palustri
quasi fossero
garbati e discreti abitanti di un acquario. E così,
parlando del proprio universo interiore, ci parla a ben vedere della
nostra realtà, riflettendola e donandole un’espressione
“atmosferica” molto più significativa che non il diluvio
social-realista o il pop di maniera.
Ma come sa chiunque abbia
osservato gli effetti di un sasso gettato
in acque chete, la fluidità
è spesso accompagnata da un offuscamento,
dalla scomparsa dei
profili (soprattutto concettuali) delle cose. Forse anche ricordando
le presunte cataratte di cui
avrebbe sofferto Monet durante
l’esecuzione delle celebri Ninfee,
l’artista milanese dice di sé:
«Ho sempre creduto che la mia vera fortuna artistica risiedesse
nella sfortuna congenita di una vista pessima e una scarsa attitudine
naturale al disegno».
Anche nell’autoritratto
in copertina ha tracciato pennellate rapide,
con urgenza e, parrebbe,
quasi alla rinfusa. Continui cambi direzionali
e la mancanza di
marcate linee di contorno infondono all’immagine
un forte dinamismo
e una sensazione di precarietà: sembra che il colore sia stato
posato solo incidentalmente sulla tela, senza rivendicare certezza
alcuna. La scelta dei colori, tranne alcune eccezioni,
è improntata
a un’uniformità quasi dimessa: grigi,
grigioazzurrognoli,
grigio-violetti. Il corpo dell’artista, fulcro
della composizione, emerge dallo sfondo senza contrasto e anzi si
amalgama
all’ambiente circostante, assumendo sulla propria pelle le
tonalità
fredde prevalenti nel quadro. Residui espressionistici e
fauve emergono
dal cromatismo irreale e dall’apparente caoticità
delle pennellate,
in equilibrio tra forza creatrice e distruttrice.
Tutto è liquido,
come si diceva poc’anzi, le forme sembrano
nascere le une dalle altre senza soluzione di continuità,
spontaneamente: mancano veri
e propri vuoti, perché anche nelle
campiture prive di figure un’aria
densa, vischiosa, carica di
striature e mulinelli, collega gli oggetti tra
loro in un unicum
organico e inscindibile.
La scena, come abbiamo accennato in precedenza, sembra immersa in un ambiente sottomarino, nel quale sparsi dettagli focalizzano lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, e da soli bastano a creare un abbozzo di narrazione. Squillano i rari rossi, gialli e smeraldini: delle unghie e delle labbra truccate, dei frutti succosi sul vassoio, dei vasi e delle losanghe per terra. Con la ripetizione parossistica della medesima forma, la pavimentazione multicolore, quasi un omaggio all’astrattismo geometrico, si stacca dal resto del dipinto, poiché concentra in pochi centimetri di tela un’idea di ordine a esso estranea.
Al contrario echi di primitivismo sono evidenti, oltre che nelle grosse foglie delle piante (che, non fosse per i vasi, sembrerebbero selvagge anziché domestiche), soprattuto nella goffaggine del corpo femminile nella posa di una scultura arcaica: gambe forti sorrette da piedi grandi, saldamente piantati per terra, mancanza quasi totale di curve e di attributi sessuali. Qui la trama di pennellate vigorose come schegge non levigate mostra un corpo che sembra scolpito rozzamente nel legno piuttosto che dipinto. I capelli, come una massa scura e folta, ricadono sciolti e pesanti, conferendo un’aria selvatica alla figura ritratta e fungono forse da specchio proiettivo dell’artista. L’unico occhio visibile sul volto per metà coperto da un impasto di pennellate violacee è rivolto verso il basso in un’atteggiamento di serena contemplazione o magari, in parte, di deferenza, se associato al gesto ostensivo delle mani. Bastano pochi tratti a rievocare un milieu esotico di cui Gauguin fu maestro.
Ma questi frammenti di “paradiso tropicale” sono sottilmente e inevitabilmente compenetrati da un senso di smarrimento e inadeguatezza: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato. / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (Eugenio Montale).
La scena, come abbiamo accennato in precedenza, sembra immersa in un ambiente sottomarino, nel quale sparsi dettagli focalizzano lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, e da soli bastano a creare un abbozzo di narrazione. Squillano i rari rossi, gialli e smeraldini: delle unghie e delle labbra truccate, dei frutti succosi sul vassoio, dei vasi e delle losanghe per terra. Con la ripetizione parossistica della medesima forma, la pavimentazione multicolore, quasi un omaggio all’astrattismo geometrico, si stacca dal resto del dipinto, poiché concentra in pochi centimetri di tela un’idea di ordine a esso estranea.
Al contrario echi di primitivismo sono evidenti, oltre che nelle grosse foglie delle piante (che, non fosse per i vasi, sembrerebbero selvagge anziché domestiche), soprattuto nella goffaggine del corpo femminile nella posa di una scultura arcaica: gambe forti sorrette da piedi grandi, saldamente piantati per terra, mancanza quasi totale di curve e di attributi sessuali. Qui la trama di pennellate vigorose come schegge non levigate mostra un corpo che sembra scolpito rozzamente nel legno piuttosto che dipinto. I capelli, come una massa scura e folta, ricadono sciolti e pesanti, conferendo un’aria selvatica alla figura ritratta e fungono forse da specchio proiettivo dell’artista. L’unico occhio visibile sul volto per metà coperto da un impasto di pennellate violacee è rivolto verso il basso in un’atteggiamento di serena contemplazione o magari, in parte, di deferenza, se associato al gesto ostensivo delle mani. Bastano pochi tratti a rievocare un milieu esotico di cui Gauguin fu maestro.
Ma questi frammenti di “paradiso tropicale” sono sottilmente e inevitabilmente compenetrati da un senso di smarrimento e inadeguatezza: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato. / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (Eugenio Montale).