Giovanni Frangi, Val Bondone, 2013 olio su tela, 130x100 cm courtesy l'artista e Galleria dello Scudo, Verona |
L'olio
su tela di Giovanni Frangi intitolato Val
Bondone è un dipinto di grande
formato, caso non isolato nella produzione dell'artista. Dal vero, sviluppandosi in
verticale, immerge lo spettatore nel paesaggio che ritrae. Questa
fruizione “immersiva” delle sue opere, indissolubilmente legata
al fattore dimensionale, non è un aspetto secondario, ma è parte
integrante dell'approccio di Frangi e del complesso equilibrio che la
sua pittura tenta d'instaurare con la rappresentazione della natura e
con la tradizione paesaggistica, all'interno della quale egli
andrebbe – credo legittimamente – collocato, seppure in una
posizione peculiare.
Ci
troviamo infatti di fronte, è bene sottolinearlo subito, a paesaggi
non realistici, nonostante l'artista prenda programmaticamente le
mosse dalla realtà. Questa semplice
constatazione, all'apparenza contraddittoria, cela tutto lo spessore
teorico della rielaborazione cui Frangi sottopone l'inesausto
rapporto tra figurazione e astrattismo, per il quale la riproduzione
descrittiva della natura,
specie dopo l'avvento della
fotografia a colori, ha sovente
costituito una fonte d'imbarazzo. Non a caso, all'inizio del
Novecento, il filosofo Ernst Bloch ebbe a definire il movimento
espressionista tedesco (ma il suo discorso vale per qualsiasi
avanguardia) come un fenomeno essenzialmente metropolitano.
Le temperature cromatiche di un Franz Marc, per esempio, trasportano
nelle vallate del Tirolo e dell'alta Baviera le acquisizioni
estetiche maturate dall'artista tra Monaco e Parigi.
Analogamente,
la valle Bondone raffigurata in
copertina ha perso, nella trasposizione su tela, i suoi colori
originari e ne ha acquisiti altri: “innaturali”,
evidentemente fittizi, forse emozionali, sorti
dall'incontro tra lo sguardo del pittore milanese e la montagna. Una
breve nota etimologica può aiutare a comprendere più a fondo.
“Bondone”
è un toponimo assai ricorrente
nelle zone alpine, che deriva dal sostantivo bondo,
la cui radice è comunemente ricondotta al lemma germanico medievale
bont,
ossia “prato, pascolo”: il fatto che nell'opera di Frangi non si
trovi nemmeno una goccia di verde esprime meglio di tanti e
articolati discorsi la tensione, presente in ogni suo quadro, verso
la trasfigurazione della natura grazie all'uso del colore.
Un
tentativo intrapreso non solo sulle Alpi dal già citato Franz Marc,
ma anche, all'altro estremo dell'arco novecentesco, dal britannico
David Hockney nelle campagne inglesi. Mentre costoro non abbandonano
mai totalmente la figurazione, in quest'opera di Frangi diventa
invece difficile, se non impossibile, comprendere con chiarezza forme
e contorni dei soggetti rappresentati, ormai liquefatti e dissolti in
sofferte campiture e chiazze cromatiche, che trapassano e s'innestano
le une nelle altre, sporcate da pennellate decise. Intuiamo
vagamente il serpeggiare di un corso d'acqua, forse
dei massi, ma potrebbe anche trattarsi di covoni di fieno, vacche o
qualche altro animale…
I
colori qui sembrano coprire la natura raffigurata, nasconderla agli
occhi dell'artista e soprattutto dello spettatore. Colori che
tuttavia
non sono autoreferenziali, non fungono cioè da puri esercizi
stilistici né tantomeno da transfert
proiettivi stesi sulla
tela intesa come specchio dell'inconscio. Frangi sembra piuttosto
dipingere con l'intenzione di far trasparire soltanto una sensazione
luminosa, un'allusione formale. Sulla tela rimane un'atmosfera di
quel paesaggio reale che nell'osservatore penetra e risuona più a
fondo rispetto, per esempio, a una sua immagine fotografica, e così,
paradossalmente, lo reimmerge con maggiore forza in quella stessa
realtà da cui il colore pareva averlo allontanato.