Gaia Carboni, Pipe Organ I, 2009 matita su carta filigranata, 65x50 cm Courtesy l'artista |
Osservando la snella struttura a torri
cilindriche che svettano nel cielo, così in alto da restare
impigliate tra le nuvole, è quasi inevitabile l’analogia visiva
con arditi e avveniristici progetti mai realizzati, ma fondamentali
per la storia dell’architettura occidentale, come Il grattacielo di
vetro di Mies Van Den Rohe del 1922 oppure Il grattacielo alto un
miglio di Frank Lloyd Wright del 1956. Con questi l’opera in
copertina condivide non soltanto una spiccata propensione alla
verticalità, ma anche quella sorta di alone magico del quale è
sempre ammantata, per le infinite possibilità che dischiude, la
scoperta di tecnologie all’avanguardia e materiali inediti.
Da un
punto di vista più strettamente estetico, invece, rievoca la
temperatura calda e il morbido fascino rétro del disegno tecnico a
mano, a matita o a china su carta, in contrasto con il freddo rigore
del disegno computerizzato.
Se abbassiamo lo sguardo verso il fondo
del disegno, però, la scena muta ed emerge con forza il codice
semantico più autentico dell’artista. Eludendo entrambe le
istanze, rispettivamente razionalista e organicista, dei due maestri
dell’architettura novecentesca, Gaia Carboni sembra dare corpo,
grazie al perfetto e ambiguo innesto tra geometria dei solidi e forme
naturali, a quelli che James Graham Ballard, nel romanzo sperimentale
The Atrocity Exhibition (1970), definisce «ottimi esempi di
architettura criptica, in cui la forma non rivela più la funzione»
oppure, si potrebbe inferire, non la rivela ancora.
Per quanto nelle
composizioni di Gaia Carboni ogni singolo elemento sia di per sé
riconoscibile: ci sembra infatti di scorgere figure tratte da un
immaginario corporeo (trombe, valvole, membrane, diaframmi, pieghe,
sacche) e vegetale (coralli, alghe, cactus, rizomi) oppure esempi di
strutture globulari (bulbi, vescicole, blastule), reticolari (radici,
miceli, vasi sanguigni, tentacoli) e cellulari (spugne, favi);
tuttavia, l’oggetto complessivo, la Gestalt della nuova creatura
prodotta juxta propria principia in base a un criterio costruttivo
vicino alla sensibilità surrealista di un Max Ernst – non a caso
menzionato con frequenza nel libro di Ballard –, sfugge alle
classificazioni precise e conduce nell’ambito di tassonomie
inventate e fantastiche, angosciosamente distopiche o lucidamente
profetiche. Scrive sempre Ballard: «Da qualche parte all’interno
del nostro cervello devono esistere i corrispondenti neurali di
queste immagini, per quanto sia difficile indovinare a cosa possano
servire».
Se dunque, da un lato, la costruzione di queste figure
mentali appare ispirata a un certo «realismo magico» novecentesco,
dall’altro è innegabile l’influenza stilistica sia dei grandi
medici, anatomisti, fisiologi ed embriologi italiani del XVI e XVII
secolo (tra gli esempi maggiori menzioniamo le Tabulae anatomicae di
Girolamo Fabrici d’Acquapendente, realizzate a inizio Seicento),
sia degli zoologi, botanici e biologi ottocenteschi, in particolare,
ci sembra, di Ernst Haeckel (autore delle straordinarie figure
raccolte nel 1899 nel prezioso volume Kunstformen der Natur):
scienziati-artisti per i quali la matita, l’olio o la china
surrogavano una strumentazione tecnologica ancora lontana a
venire.
Eppure, l’aspetto criptico e perturbante di questa
iconografia, ricorrente nei disegni a penna, nelle sculture o nei
lavori a puntasecca di Gaia Carboni, non deriva tanto, né
soprattutto, dalla commistione formale tra manufatti e creature,
quanto piuttosto dal collocarla in un arco d’incertezza e
indecidibilità non solo temporale (i cui poli sono l’arcaico e il
futuro remoto), ma altresì ideologico. Grazie anche a un sobrio ma
onnipresente impiego dell’asimmetria e al sapiente uso di cavità
e vuoti, l’artista coniuga perfettamente il rigido geometrismo di
severe strutture rettilinee con la plasticità degli organismi,
generando un’integrazione biotecnologica, bionica, così poco
“artificiosa”, così priva di forzature figurative, da
confondere le idee rispetto al modus operandi: quello della natura
naturans che si appropria di un manufatto umano – come un’edera
aggrappata a un muro di mattoni, una colonia di funghi nata
parassitariamente su una colonna di cemento o l’erba sbucata
dall’asfalto – oppure, viceversa, quello delle tecnoscienze
moderne e, in particolare, dell’ingegneria biomedica, che innesta
dispositivi artificiali, elementi estranei e morti, dentro corpi ed
esseri viventi. Questa irrisolta circolarità dialettica tra téchne
e bíos consente di optare per l’una o l’altra linea esegetica,
con conseguenze di volta in volta opposte.