Piotrkow, 2013 acquerello su carta, cm 113 × 100 Courtesy l’artista |
Le
opere di Gosia Turzeniecka ci coinvolgono in un “turbine di
quotidianità”: ciò che vediamo è quanto l'artista ha colto in un
preciso momento, in una determinata situazione, ed è perciò
letteralmente irripetibile. Gosia infatti dipinge quasi sempre dal
vivo, negandosi la possibilità di “rimeditare” il contenuto dei
suoi lavori, non cede mai al fascino dell'immaginario o del
fantastico e raramente dipinge a memoria o muovendo da fotografie,
perché riporta su carta solo quanto ha personalmente visto e
vissuto.
Osserva il variegato mondo reale e lo riproduce rapidamente,
omettendo numerosi dettagli inessenziali, ma cogliendo con pochi
tratti un singolo sguardo, un gesto, un'atmosfera. Vede gli amici, la
famiglia, la sua casa e il suo Paese natale, gli animali nell'aia,
gli edifici in città, i paesaggi in vacanza, trascrivendo il proprio
vissuto su fogli di varie dimensioni e spessori – cartoncino, carta
velina, pagine di quaderno – in un vortice di
istantanee. Un campionario senza fine di oggetti, persone,
situazioni: un flusso creativo
incessante, una circolarità senza posa tra recezione e
(ri)produzione, tra attenta percezione del mondo circostante e resa
artistica, in un incalzare prosaico e pragmatico, ingenuo forse ma
onesto, che non prende avvio da un'analisi teorica né mira a lirismi
di maniera.
Queste caratteristiche si riflettono inevitabilmente sul piano tecnico. Da un lato, rispetto alle aspirazioni ideali, si potrebbe paragonare la pittura di Gosia a una macchina fotografica che cattura istantanee, dall'altro, rispetto agli esiti, l'analogia con la fotografia è del tutto inadeguata, poiché la figurazione è qui improntata all'immediatezza gestuale, alla drastica essenzialità cromatica e segnica, senza chiaroscuro né ombre. Gosia utilizza quasi esclusivamente china o acquerello nero su carta bianca (con alcune eccezioni, come nell'immagine di copertina), delineando le figure con tratti decisi, puliti e mai ridondanti. Anche la scelta della carta è una esplicita dichiarazione d'intenti: è un supporto agile, da viaggiatore, comoda en plein air, facilmente reperibile, poco costosa, non occupa troppo posto e soprattutto non richiede preparazioni particolari. La carta rispecchia una concezione non eternante dell'arte perché ha un ciclo di vita breve ed è esposta al deterioramento: è fragile e umile.
Queste caratteristiche si riflettono inevitabilmente sul piano tecnico. Da un lato, rispetto alle aspirazioni ideali, si potrebbe paragonare la pittura di Gosia a una macchina fotografica che cattura istantanee, dall'altro, rispetto agli esiti, l'analogia con la fotografia è del tutto inadeguata, poiché la figurazione è qui improntata all'immediatezza gestuale, alla drastica essenzialità cromatica e segnica, senza chiaroscuro né ombre. Gosia utilizza quasi esclusivamente china o acquerello nero su carta bianca (con alcune eccezioni, come nell'immagine di copertina), delineando le figure con tratti decisi, puliti e mai ridondanti. Anche la scelta della carta è una esplicita dichiarazione d'intenti: è un supporto agile, da viaggiatore, comoda en plein air, facilmente reperibile, poco costosa, non occupa troppo posto e soprattutto non richiede preparazioni particolari. La carta rispecchia una concezione non eternante dell'arte perché ha un ciclo di vita breve ed è esposta al deterioramento: è fragile e umile.
Nei
suoi dipinti e disegni, la dimensione emotiva e psicologica è molto
sfumata, se non del tutto assente, mentre domina sopra ogni altro
aspetto la materialità del corpo, con la sua carica di sensuale
(benché mai volgare) carnalità. Tale immanenza – a nostro avviso
– scaturisce da una misteriosa sorgente d'ispirazione e si
avviluppa intorno a un centro nascosto: la campagna,
con la sua terra grassa, il suolo fertile… una campagna vissuta,
ricordata e profondamente interiorizzata
è
l'orizzonte che accomuna gran parte dei suoi soggetti e circoscrive
la sua estetica.
È
quindi la terra,
lavorata dalla lenta, cadenzata manualità del contadino, a conferire
al tratto dell'artista eleganza e insieme concretezza, equilibrio e
armonia da un lato, forza e peso dall'altro. Quel tratto vigoroso ma
lieve, mai eccessivamente ricercato,
esprime un
intenso legame con la terra (natia), con la sinuosità e la
consistenza delle zolle appena sarchiate, del terreno rivoltato da
aratri, erpici e vanghe. Quella terra con la quale intrattengono un
rapporto elettivo e viscerale non solo gli animali del suo
ricchissimo
catalogo agreste,
ma anche le posture umane, i corpi flessuosi, specie femminili,
sovente sdraiati (e addormentati) in un contatto integrale e fisico
con il suolo.
Eppure
questo baricentro magnetico non attrae l'artista verso proposte
romantiche, fughe regressive, nostalgiche o utopiche. Ripulita da
ogni facile spiritualismo, riesce a comunicarci la stabilità e il
senso di protezione che caratterizzano la vita dei campi. Ma la
pittura di Gosia, che si ama istintivamente perché non ha bisogno di
spiegazioni, è naif solo
in apparenza. Spalanca infatti una
finestra su una delle più potenti e violente rimozioni dell'epoca
contemporanea: la distruzione della
“campagna” come metafora di un mondo, di una civiltà che
progressivamente scompare.
Per
la generazione di Gosia (l'ultima, in Occidente, ad aver vissuto in
prima persona nell'infanzia la radicale trasformazione sociale che ha
cancellato in un batter d'occhio una civiltà ancora intimamente
contadina), il “palazzone” periferico, perfetto simbolo della
conversione forzata di terreno agricolo in suolo edificabile,
rappresenta la definitiva espulsione della campagna dallo scenario
percettivo esterno, relegata ormai nei meandri dell'inconscio, fonte
inesauribile di nostalgiche memorie e malinconie, oppure, come nel
caso dell'artista, sorgente viva non solo di una precisa estetica, ma
anche di una delicata spinta etica dalle valenze documentarie e
inconsapevolmente salvifiche. Per questa ragione, l'opera
scelta per la copertina è emblematica rispetto alla ricerca
artistica di Gosia, sebbene, lo ricordiamo, presenti una gamma
cromatica inconsueta nel suo repertorio, di norma in bianco e nero.
Prendendo
in prestito le evocative parole della scrittrice ungherese Magda
Szabó (1917-2007):
«Era estate, la sera era blu,
verde, il cielo splendeva dei colori che conoscevo, gli stessi che
avevo sempre visto a quell'ora».