livelli corporei, 2013, olio su tela, 46x62 cm courtesy l'artista |
Per affrontare lo strato
più profondo della complessa arte proposta da Manuele Cerutti,
impregnata di un elemento imponderabilmente perturbante, è
necessario stabilire subito un assunto fondamentale: gli oggetti
raffigurati si inscrivono in una poetica del “fossile” o, meglio,
della fossilizzazione in quanto processo.
L’artista ritrae cose
da poco, povere e inoffensive, cose che conosce, possiede o rinviene,
e che diventano parte di un curioso ed eterogeneo repertorio: bacche,
legni, sassi, pietre, ossa, utensili ecc. L’oggetto presentato è
quasi sempre materia inorganica e, anche quando tale non è, il suo
aspetto viene invincibilmente ricondotto, attraverso una curiosa
mimesi con il morto o mummificazione sui generis, a uno stadio
“geologico”, minerale, richiamato anche dalle tinte terrose
utilizzate.
Pur mantenendo integra la loro unità figurativa, questi
oggetti, come la pigna nell’immagine in copertina, sono
attraversati da trincee, fori, cavità, ed è proprio da queste
zone, solitamente nere o in ombra, che provengono le prime,
indefinibili inquietudini avvertite dallo spettatore. Lo studio del
vuoto, delle porosità e dei carsismi è molto curato da Cerutti:
la sapiente composizione conferisce alla rappresentazione, ripulita e
bonificata da ogni presenza organica, un’evidente ambiguità
morfologica e una allure, appunto, fossile.
L’aspetto
davvero straordinario è che questa fossilizzazione delle forme è
ottenuta senza il minimo gesto arcaicizzante: esse sono
spontaneamente primordiali attraverso la scelta ponderata del punto
d’osservazione e, soprattutto, grazie allo sfruttamento di
azzardate possibilità prospettiche. Cerutti non solo elimina
programmaticamente ogni possibile riferimento “esterno”
all’oggetto dipinto che consenta di coglierne la misura, ma evita
anche di adottare lo scorcio più favorevole per renderne
chiaramente intelligibile la fisionomia, proponendo visioni
inusitate, certamente verosimili, ma che confondono e impediscono di
stabilire le dimensioni reali. L’oggetto, fuori scala, entra in una
soglia di incertezza e indecidibilità, risultando quindi
sconosciuto: un osso somiglia a una statuetta, una bacca a un
teschio, una crepa nel muro al greto di un fiume. Ne deriva un
effetto di profondo straniamento, causato dalla mancanza di sicurezza
su cosa stiamo guardando.
Eppure la sua arte non è surrealista:
rimane sospesa tra consueto e inconsueto, tra veglia e sogno, senza
mai attestarsi su una posizione netta.
Frequente è l’intenzionale
accostamento, sullo sfondo di campiture omogenee e prive di
profondità, di elementi estremamente dettagliati ad altri appena
abbozzati, come nell’immagine in copertina, dove la pigna
tratteggiata in ogni particolare è retta da dita goffe e informi.
Con questo stratagemma, lo sguardo si concentra sulla pigna,
percependo come marginale tutto il resto. Ma in questo «resto» c’è
ancora molto, sepolto sotto le velature e i chiaroscuri che Cerutti,
riprendendo le tecniche care ai pittori rinascimentali e fiamminghi,
impiega per conservare nel dipinto, simultaneamente, più fasi
sovrapposte. Spesso le immagini che traspaiono dagli strati sottostanti sembrano avulse da quelle più in superficie, ma è
impossibile prescindere dalla loro compresenza: il dipinto genera uno
spiazzamento emotivo tra la pigna-teschio fossilizzata e la figura
umana viva, delineata sullo sfondo. Tali stratificazioni di pittura e
di temi – e ancora una volta si potrebbe rimandare alla “geologia”
– permettono di leggere, per così dire, la storia evolutiva del
dipinto.
Un tale modus operandi si basa sulle categorie del
ripensamento e dell’errore come vive sorgenti creative, dipendenti
a loro volta da un’antropologia della vita incentrata
sull’esercizio artistico ininterrotto, una delle «antropotecniche»
teorizzate dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk. Per l’artista
infatti non è importante soltanto il risultato, il dipinto finito –
che anzi è in qualche modo sempre un “non finito” – bensì
il processo in sé che ha portato alla configurazione ultima, ma
mai
definitiva. Così i quadri di Cerutti esprimono un’insopprimibile
sensazione d’incompiutezza formale e concettuale, quasi mancasse
loro una yod o un apice, la lettera e il segno fonetico dell’alfabeto
ebraico più piccoli, ma essenziali per dare alle Sacre Scritture il
loro senso complessivo e la loro vigenza.
Attraverso questa ricercata
incompiutezza, Cerutti evita di feticizzare l’opera d’arte, che
ha senso fintantoché continua a suscitare stimoli conoscitivi e
rimane irrisolta. Quando un’opera è troppo esplicita, quando non
lascia trapelare più dubbi né ambiguità, quando il suo mistero
è svelato, è “finita” nel senso che ormai è statica... e
allora Cerutti la ricopre con altra pittura, la trasforma, in un
serie di ripensamenti in cui il momento più recente conserva
l’impronta dei precedenti, arricchendosi visivamente e
concettualmente.
Solo il mercato dell’arte, solo l’ingresso
dell’opera nello stadio dell’alienazione a terzi sembra porre
termine al lavorio ininterrotto dell’artista e dare compimento, in
un certo senso, al suo operato, trasformando il work in progress
in opere finite. Uno di quei rari casi in cui la vendita non salva
l’opera dall’oblio, ma dal suo stesso autore.