ring, 2012, tecnica mista sua carta, 16 x 23 cm courtesy l'artista |
Il
passato prossimo è la dimensione prevalente in cui sorgono e vivono
le opere di Enrico Tealdi, affini in questo senso alla poetica di
Umberto Saba. Nel «piccolo mondo» che «si teneva per mano»,
evocato dal poeta nel primo verso della lirica dedicata alla figlia
Linuccia, ben si rispecchia l'universo di immagini intenzionalmente
imperfette, polverose e sgranate dell'artista. È un mondo passato,
ma non da molto, il cui calore continua a riscaldare il presente, le
cui immagini rarefatte – riprendendo ancora Saba – illuminano «la
tua memoria», cercandoti il cuore «come il pugnale d'un nemico»:
preciso, risoluto, affilato.
A differenza del
passato remoto, ormai innocuo perché privo di qualunque legame
biografico e intimo con il soggetto, il passato appena trascorso è
contraddistinto da una peculiare paradossalità temporale e
psicologica, che Theodor W. Adorno ha colto con grande lucidità: «Il
passato più recente suscita regolarmente l'impressione di essere
stato distrutto da una serie di catastrofi» (Minima moralia,
Af. 29). La perdita catastrofica, sentita cioè come irreparabile e
penosa, riguarderebbe dunque una realtà ancora emotivamente vicina,
che trova il suo topos classico nell'infanzia. Il confronto
con questa abissale prossimità dell'altro ieri, inesorabilmente
trascorso e ormai irraggiungibile, ma di cui si continua a percepire
l'inconcluso processo di rarefazione, è forse il movente più
autentico di Enrico Tealdi, che con i suoi lavori arresta per un
momento e fissa in immagini proprio quella rarefazione quasi
impercettibile, caratteristica del ricordo vivo.
Per salvare queste
prossimità interiori, Tealdi si serve di una singolare tecnica che
parte dalla fotografia, impressa tramite acido esclusivamente su
carta, e la “sporca” con la pittura (acrilico, tempera, colori in
polvere, grafite, gomma lacca) per ricreare quella particolare patina
fatta di polvere impastata di ricordo, tipica dei vecchi album
fotografici.
I suoi quadri (a
eccezione dei lavori più grandi) non si esauriscono nel supporto
cartaceo, perché ogni opera è la sintesi compiuta di due elementi
inscindibili: carta e cornice. Tealdi sceglie personalmente e con
estrema cura le cornici: usate, vecchie, vissute, a volte consunte e
spaccate, le recupera da quelle inesauribili riserve di passato
prossimo che sono le botteghe o le bancarelle dei rigattieri,
mettendole in diretta e profonda risonanza con
le raffigurazioni che sono chiamate a incorniciare. In tal modo
vengono trasferite dalla sfera del significante a quella del
significato, non restano mero supporto materiale, ma diventano
rappresentazione tout court, parte integrante del messaggio
artistico. Ogni quadro è così un oggetto speciale, un
quadro-scultura diverso da tutti gli altri, impossibile da
replicare.
igloo di zucchero, 2013, 27 x 32,5 cm courtesy l'artista |
Nella produzione complessiva di Tealdi predominano campiture gessose e come stuccate, quasi sempre semideserte (spiagge, cieli e spazi aperti). Tutto sembra attraversato da un aspetto essenzialmente ludico, ben visibile, per esempio, in molti lavori inclusi nella selezione in mostra come Pomeriggio (2012), Rete (2012), Faro (2013). Nell'infanzia, passato prossimo di ciascuno, oggetti propri e altrui, animali e persone (coetanei o adulti) sono visti unicamente in funzione del gioco; la realtà circostante è interamente immersa nel tempo sospeso e nello spazio protetto del gioco: «Là eravamo nello spazio tra giocattolo e mondo». Questo straordinario verso di Rainer Maria Rilke ci offre una chiave per decifrare le atmosfere soffuse create da Tealdi, dove ogni cosa sembra emergere dall'album di famiglia e pare affetta, appunto, da quell'insopprimibile coloritura ludica che le si attribuiva da bimbi, affievolitasi poi nel passaggio da puer ludens a homo faber. Essa risulta più vivida in alcuni gesti: le corse sulla spiaggia, il bagno in mare, le conversazioni e le passeggiate degli adulti sul bagnasciuga, istanti preziosi e vivi che misteriosamente rispondono, dialogano, interrogano e al contempo rassicurano, accompagnano, tenendo per mano l'adulto come facevano con l'inconsapevole fanciullo.
Nell'iconografia
di Tealdi, il “filo” tenuto in mano,
appeso o errante, annodato o sciolto, spezzato o teso è un tema
assai ricorrente. Tutto indurrebbe a supporre che per l'artista esso
sia la metafora o, meglio, il simbolo più pregnante della sua
poetica, incentrata sul bisogno di trattenere la prossimità, di
tenerla per mano.
Cordicelle penzolano raminghe, oppure uniscono realtà distanti,
cingono corpi e oggetti, si attorcigliano, aggrovigliano e
ammatassano, mai però dando la sensazione angosciosa di opprimere e
vincolare: annodano esperienze serene, estranee alle arcaiche trame
del dolore acuto e irreparabile o dell'inadeguatezza esistenziale.
Sul piano concettuale ricordano quelli che Sigmund Freud chiamava
«fili mentali» (Gedankenfäden),
ovvero liaisons
non meramente ideali tra passato e adesso, tra infanzia ed esperienza
odierna, che nei lavori di Tealdi si fanno immagine tra pensiero e
disegno, tra cervello e gesto artistico. Simili al filo che Teseo
lasciava dipanare per uscire dal labirinto, consentono inoltre di
rintracciare percorsi complessi, temporali anziché spaziali.
Non a caso, Freud parla anche di «tracce
(o impronte) del ricordo» (Erinnerungsspuren):
lo psicoanalista sembra alludere con
gergo popolare all'idea che i ricordi, in noi, siano calchi delicati
nel tempo, appena percepibili, che può rintracciare soltanto
chi conosce perfettamente il territorio interiore per averlo percorso
in continuazione a ritroso, cercando impronte e al contempo
lasciandone a sua volta di fresche.
Alla
stregua di una variazione sul tema dei “fili mentali”, vi è un
gruppo di lavori caratterizzato dalla presenza di lacci circolari
che, come fumetti senza scritte, aquiloni scheletriti o pietre porose
dalla densa levità, seguono le rare figure umane rappresentate . Di
primo acchito, sembrerebbero definire «province finite di
significato» (Alfred Schütz): porzioni fisiche o semantiche di
realtà che il soggetto stesso ritaglia nella complessità del mondo
e del passato, grazie a una sua proiezione attiva di tipo emotivo o
conoscitivo. Tuttavia, rovesciando il rapporto, può ben darsi, che
quelle porzioni circoscritte esistano da sempre, siano cioè la
porzione di passato prossimo assegnata ab
origine a me, alla mia personale
memoria. Le cordicelle che ne discendono – sembrano suggerire le
opere – non sono state lanciate dal soggetto nell'atto di catturare
una frazione di mondo per impossessarsene, ma forse sono predestinate
a un preciso individuo, e solo
a lui. Sta a quella singola persona prendere in mano il filo
destinatole e instaurare un legame con il cosmo di ricordi,
esperienze ed emozioni dal quale esso deriva e al quale può
immediatamente ricondurre.
faro, 2013, tecnica mista su carta courtesy l'artista |
Quei
fili, naturalmente, sono ancora troppo corti per poter raggiungere i
ragazzi, i quali, a differenza dei grandi, non hanno un passato
prossimo cui guardare, poiché anagraficamente sono ancora troppo
vicini all'infanzia per poterla osservare dalla prospettiva del
ricordo e sono completamente protesi in avanti verso l'età adulta.
Ma che cosa succederebbe se – come accade ai due tredicenni
protagonisti del romanzo di Ray Bradbury Il
popolo dell'autunno, ammaliati
dall'atmosfera stregata di un inquietante luna park – uno strano
imbonitore mettesse a disposizione una giostra-macchina del tempo
che, con pochi giri, consentisse di bruciare le tappe e diventare
subito adulti? I ragazzi crescerebbero d'un fiato, ma il tempo non
vissuto tra la corsa sul carosello magico e la nuova vita da adulti
sarebbe vuoto, diametralmente opposto al tempo denso, colmo, indagato
e trattenuto nelle opere di Tealdi.
Il
luogo che, nell'immaginario comune, dovrebbe ospitare il divertimento
più spensierato, nel romanzo di Bradbury presenta invece un volto di
angosciante decadenza: «Visto da vicino il luna park era fatto di
funi, di tela mangiata dalle tarme, di lamiera consumata dalla
pioggia e imbiancata al sole». La vetustà del luna park e la
sensazione che appartenga a un altro mondo, legato a tradizioni e
consuetudini estranee alla nostra quotidianità, ne fanno un Paese
dei Balocchi misterioso e conturbante, dal quale ci sentiamo attratti
e al contempo ingannati. Un'ambivalenza che sembra caratterizzare
anche un gruppo di opere recenti di Enrico Tealdi: giostre, caroselli
e tendoni sono ricoperti da una coltre fuligginosa, che spegne la
variopinta allegria cui normalmente vengono associati. Vestigia da
poco abbandonate di una trascorsa e inadempiuta promessa di periodica
e fugace felicità, rivelano la perdita della loro antica funzione
ricreativa nonché la loro inservibile e disabitata monumentalità.
La medesima cui allude il titolo scelto dall'artista, ispirato al
romanzo Gita al Faro
di Virginia Woolf: «Il Faro che avevano visto oltre la baia per
tutti quegli anni era una torre nuda su un nudo scoglio». Agli occhi
del navigante il faro appartiene al mondo reale del lavoro, della
tecnica, mentre da terra vive in una dimensione simbolica e
immaginaria, punto di riferimento più interiore che geografico il
quale, nella sua archetipica singolarità, al pari della giostra
abbandonata, emana sensazioni non sempre gradevoli.
riflessi in un interno, 2013, tecnica mista su carta courtesy l'artista |
In
questa nuova serie di lavori, connotati da un'atmosfera emotivamente
più cupa e meno limpida rispetto al percorso artistico precedente,
Tealdi sembra inoltrarsi in ambiti finora non sondati dalla
sua ricerca, ai quali appartengono anche le cornici bruciate e le
superfici annerite di Riflessi in un interno (2013).
Instaurando un'associazione visiva immediata con oggetti carbonizzati
scampati a un incendio, suscitano in noi quel senso di malinconia e
disagio dovuto al contatto con qualcosa di impuro. Sembra quasi che
l'artista abbia deciso di sospendere per un momento il suo viaggio a
ritroso nelle estese lande della memoria per dedicarsi, esplorando il
genere del ritratto, a un'indagine più schiettamente concettuale.
In maniera tutt'altro
che ingenua, Tealdi utilizza le fotografie di alcuni spazi
espositivi, da lui stesso scattate in occasione di sue precedenti
mostre, per suscitare nell'osservatore, che qui le vede appese alle
pareti di un altro spazio espositivo, la sensazione di trovarsi
dinnanzi a una serie di scatole cinesi o quadri-matrioska, un
divertissement che rimanda ancora una volta alla sottile vena
ludica dell'artista: siamo in presenza di una galleria, raffigurata
dentro a un quadro, esposto in una galleria. Il senso artistico del
quadro si compie esclusivamente durante la sua esposizione,
nell'interazione con lo spazio e i visitatori della galleria reale:
nessun altro contesto, se non la mostra (che entra così a far parte
integrante del quadro, della sua semantica, donandogli un'impronta
performativa), potrebbe rendere giustizia al suo specifico
significato concettuale. Ci sembra dunque di intuire che il titolo
Riflessi in un interno non si limiti a descrivere solo l'opera
fisicamente appesa alla parete, ma anche la situazione che essa crea
quando entra in contatto con un pubblico.
All'interno di questa
struttura complessa, Tealdi allestisce un articolato gioco di
riflessi e sdoppiamenti, che instaura un duplice parallelismo: da un
lato, tra gli spettatori reali e quelli del ritratto, tra noi che
osserviamo loro e costoro che si osservano; dall'altro, tra il nostro
riflesso sul vetro annerito e il loro riflesso su uno dei quadri
raffigurati dentro al quadro reale. Che l'immagine ci venga
restituita da uno specchio o da un quadro non cambia molto – sembra
dirci l'artista – perché il confine tra i due è labile: uno
specchio può essere opera d'arte attraverso il riflesso (come nei
quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto) e un'opera
d'arte può essere specchio attraverso la riflessione,
intesa in senso sia ottico sia cognitivo.
L'artista inoltre
dimostra di conoscere l'accorgimento compositivo, ricorrente nella
storia dell'arte, di far emergere per contrasto, da una cornice
d'ombra, la scena centrale di un'opera. Ne è un esempio magistrale
La lettera d'amore (1669-1670) di Jan Vermeer, che introduce
l'osservatore a un evento privato attraverso il vano della porta di
un vestibolo oscuro. Analogamente, graffiando solo in parte la
superficie annerita del vetro, Tealdi ricava una sorta di mascherino
(una cornice nella cornice) simile a quello utilizzato nel cinema –
specie nei cosiddetti keyhole movies d'inizio Novecento – e
invita deliberatamente lo spettatore reale a guardare dalla fessura,
inducendolo a un voyeurismo sui generis nei confronti degli
spettatori raffigurati. Ma questo meccanismo potrebbe riprodursi
durante la mostra e lo spettatore reale, ignaro, potrebbe essere a
sua volta sorvegliato e magari fotografato in vista dell'eventuale
realizzazione di opere future, in un ciclo creativo virtualmente
infinito.
***testo pubblicato sul catalogo edito in occasione della mostra
«Era un piccolo mondo e si teneva per mano. Enrico Tealdi.»
presso EFFEARTE gallery, Milano, 19.09-15.11.2013***