Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

venerdì 7 marzo 2014

Gaia Carboni

Gaia Carboni, Pipe Organ I, 2009
matita su carta filigranata, 65x50 cm

Courtesy l'artista


Osservando la snella struttura a torri cilindriche che svettano nel cielo, così in alto da restare impigliate tra le nuvole, è quasi inevitabile l’analogia visiva con arditi e avveniristici progetti mai realizzati, ma fondamentali per la storia dell’architettura occidentale, come Il grattacielo di vetro di Mies Van Den Rohe del 1922 oppure Il grattacielo alto un miglio di Frank Lloyd Wright del 1956. Con questi l’opera in copertina condivide non soltanto una spiccata propensione alla verticalità, ma anche quella sorta di alone magico del quale è sempre ammantata, per le infinite possibilità che dischiude, la scoperta di tecnologie all’avanguardia e materiali inediti.

Da un punto di vista più strettamente estetico, invece, rievoca la temperatura calda e il morbido fascino rétro del disegno tecnico a mano, a matita o a china su carta, in contrasto con il freddo rigore del disegno computerizzato. Se abbassiamo lo sguardo verso il fondo del disegno, però, la scena muta ed emerge con forza il codice semantico più autentico dell’artista. Eludendo entrambe le istanze, rispettivamente razionalista e organicista, dei due maestri dell’architettura novecentesca, Gaia Carboni sembra dare corpo, grazie al perfetto e ambiguo innesto tra geometria dei solidi e forme naturali, a quelli che James Graham Ballard, nel romanzo sperimentale The Atrocity Exhibition (1970), definisce «ottimi esempi di architettura criptica, in cui la forma non rivela più la funzione» oppure, si potrebbe inferire, non la rivela ancora. 

Per quanto nelle composizioni di Gaia Carboni ogni singolo elemento sia di per sé riconoscibile: ci sembra infatti di scorgere figure tratte da un immaginario corporeo (trombe, valvole, membrane, diaframmi, pieghe, sacche) e vegetale (coralli, alghe, cactus, rizomi) oppure esempi di strutture globulari (bulbi, vescicole, blastule), reticolari (radici, miceli, vasi sanguigni, tentacoli) e cellulari (spugne, favi); tuttavia, l’oggetto complessivo, la Gestalt della nuova creatura prodotta juxta propria principia in base a un criterio costruttivo vicino alla sensibilità surrealista di un Max Ernst – non a caso menzionato con frequenza nel libro di Ballard –, sfugge alle classificazioni precise e conduce nell’ambito di tassonomie inventate e fantastiche, angosciosamente distopiche o lucidamente profetiche. Scrive sempre Ballard: «Da qualche parte all’interno del nostro cervello devono esistere i corrispondenti neurali di queste immagini, per quanto sia difficile indovinare a cosa possano servire».

Se dunque, da un lato, la costruzione di queste figure mentali appare ispirata a un certo «realismo magico» novecentesco, dall’altro è innegabile l’influenza stilistica sia dei grandi medici, anatomisti, fisiologi ed embriologi italiani del XVI e XVII secolo (tra gli esempi maggiori menzioniamo le Tabulae anatomicae di Girolamo Fabrici d’Acquapendente, realizzate a inizio Seicento), sia degli zoologi, botanici e biologi ottocenteschi, in particolare, ci sembra, di Ernst Haeckel (autore delle straordinarie figure raccolte nel 1899 nel prezioso volume Kunstformen der Natur): scienziati-artisti per i quali la matita, l’olio o la china surrogavano una strumentazione tecnologica ancora lontana a venire.

Eppure, l’aspetto criptico e perturbante di questa iconografia, ricorrente nei disegni a penna, nelle sculture o nei lavori a puntasecca di Gaia Carboni, non deriva tanto, né soprattutto, dalla commistione formale tra manufatti e creature, quanto piuttosto dal collocarla in un arco d’incertezza e indecidibilità non solo temporale (i cui poli sono l’arcaico e il futuro remoto), ma altresì ideologico. Grazie anche a un sobrio ma onnipresente impiego dell’asimmetria e al sapiente uso di cavità e vuoti, l’artista coniuga perfettamente il rigido geometrismo di severe strutture rettilinee con la plasticità degli organismi, generando un’integrazione biotecnologica, bionica, così poco “artificiosa”, così priva di forzature figurative, da confondere le idee rispetto al modus operandi: quello della natura naturans che si appropria di un manufatto umano – come un’edera aggrappata a un muro di mattoni, una colonia di funghi nata parassitariamente su una colonna di cemento o l’erba sbucata dall’asfalto – oppure, viceversa, quello delle tecnoscienze moderne e, in particolare, dell’ingegneria biomedica, che innesta dispositivi artificiali, elementi estranei e morti, dentro corpi ed esseri viventi. Questa irrisolta circolarità dialettica tra téchne e bíos consente di optare per l’una o l’altra linea esegetica, con conseguenze di volta in volta opposte.

***testo pubblicato in GIDM - num. 1, vol. 34, marzo 2014***