Disobedience Archive (The Republic) veduta della mostra presso il Castello di Rivoli, 2013 courtesy www.castellodirivoli.org |
Dopo
aver girato l'Europa attraversando più di dieci Paesi, Disobedience
Archive (The Republic), a cura di
Marco Scotini, approda anche al Castello di Rivoli. Un archivio
corposo per quantità e qualità dei materiali raccolti, spesso
autentiche rarità, uno scrupoloso lavoro di ricerca in continuo
aggiornamento, che dura da oltre un decennio e tuttora in fieri.
Una
mostra sui generis, con un allestimento site-specific, concepito
dall'artista/architetto Céline Condorelli e il contributo del
designer Martino Gamper. Un parlamento in legno dove gli scranni sono
occupati da 57 televisori su cui scorrono altrettanti video,
testimonianze di differenti forme di disobbedienza al “potere
costituito”; una parabola temporale che va dagli anni Settanta a
oggi, dal Festival del Proletariato giovanile al Parco Lambro di
Milano alla Primavera Araba, passando per le proteste no global, le
forme di bioresistenza, l'attivismo argentino, le esperienze di
disobbedienza nei Paesi ex-comunisti e nelle università, e le lotte
del femminismo.
Al
cuore digitale dell'esposizione è affiancato un apparato
iconografico di libri, manifesti, fotografie e sculture, con opere,
tra gli altri, di Beuys, Merz e Gilardi. L'artista di origine
messicana Erick Beltrán ha inoltre creato un'installazione di wall
painting in ognuna delle tre sale espositive.
Al
di là degli evidenti meriti dell'operazione, ossia da un lato la vis
documentaria e dall'altro la volontà di rievocare concetti e
pratiche politiche “dal basso” nell'epoca dell'Europa unita e
assopita “dall'alto”, non possono sfuggire i suoi limiti,
altrettanto evidenti.
In
primo luogo, l'enorme mole documentaria (35 ore di filmati, contate
per difetto) impedisce allo spettatore una chiara e approfondita
fruizione dei materiali. L'esito quindi è paradossale:
un approccio superficiale, frammentario, puramente presenzialistico,
visivo ed estatico-contemplativo alle opere esposte, che le mortifica
insieme alla ricerca che le ha rese disponibili, e ne contraddice la
valenza analitica nonché storico-documentaria, inscrivendole proprio
nel paradigma mainstream su cui poggia la società dello spettacolo
che si intende criticare.
In
secondo luogo un atroce dubbio, che investe perfino le fondamenta
teoriche dell'intero progetto, ci assilla: il gesto di catalogare,
schedare, archiviare, mappare la “disobbedienza” nelle sue
diverse forme ed espressioni non è forse troppo simile ai metodi
dell'autorità costituita, alle procedure delle varie agenzie
statali, più o meno segrete, giudiziarie, civili-burocratiche o
militari-poliziesche, preposte alla prevenzione, alla repressione,
alla stabilizzazione? Non assomiglia forse, nei suoi codici profondi,
al lavoro del “nemico”? Se evitiamo di cadere nella trappola
teorica più fatale, interpretando unilateralmente, cioè solo in
funzione ribelle, la foucaultiana microfisica del potere, allora la
“strada” e i “movimenti” diventano il campo
de-territorializzato dell'infiltrato, come la storia ha più volte
dimostrato, mentre Scotini, con un apparente gesto di
ri-territorializzazione e contrario
che però ignora la costitutiva asimmetria tipica nelle questioni di
potere, intende conta-minare il “palazzo”, alias museo/castello
di Rivoli, turris eburnea
dell'aristocrazia intellettuale, mutandolo in luogo della
rivoluzione. Ma è pura finzione: lo Stato dentro i movimenti li
disgrega; l'arte ribelle dentro il Museo lo rafforza. Rafforza le
carriere, rassicura le élite che quella ribellione è in fondo
simulacro, “solo” arte, rappresentazione ammansita, spettacolo
innocuo.
A
tal proposito ci permettiamo di proporre a Scotini un istruttivo
esercizio di Einfühlung,
di immedesimazione storica. Nel 1871 i rivoluzionari, durante la
Comune di Parigi, nominarono Gustave Courbet a capo dei musei
civici. Quando si accorse che i proletari in rivolta avevano preso a
saccheggiarli in quanto emblemi del potere tanto inviso, Courbet si
prodigò per salvarli dalla rovina, pur continuando ad appoggiare la
causa della Comune. Ebbe cioè la stessa reazione del conservatore
Nietzsche, trasalito alla (falsa) notizia che il Louvre era stato
razziato dai comunardi. Del resto, come ricorda Walter Benjamin, la
cultura non è sempre frutto di precedenti atti di barbarie? Che cosa
penserebbe o farebbe Scotini se la reale
disobbedienza irrompesse nel Museo, se la rabbia popolare devastasse
il suo Disobedience Archive
e così, distruggendolo, ne desse definitivo compimento?
***testo pubblicato in www.artribune.com, 17 maggio 2013***