Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

giovedì 10 dicembre 2015

Antonio Bardino

Antonio Bardino, Senza titolo, 2013
olio su tela, 30x30 cm, courtesy l'artista


Ai confini della foresta di Fontainbleau i pittori Barbisonniers hanno dato avvio, nella seconda metà dell’Ottocento, a una tradizione di pittura paesaggistica alla quale, per certi versi, possiamo accordare anche la ricerca di Antonio Bardino. Originario di Alghero e trasferitosi da anni a Udine, anch’egli, come i pittori di Barbizon, si trova su un confine: duplice nel suo caso.
Ai piedi delle vette alpine, Udine è infatti, insieme ad Aosta e Merano, una delle sole tre città italiane ubicate in prossimità di due confini. Bardino vi approda peraltro partendo dalla Sardegna, una realtà insulare che è per definizione un’unica grande frontiera fisica naturale, poiché connotata, fin nel proprio nome, dall’isolamento, dal limes, dal confine, inteso a volte come confino. Ma queste definizioni sono irrimediabilmente soggettive, prodotte da chi presuppone una qualche centralità, come ricorda con arguzia Lev Tolstoj nella Morte di Ivan Il'ic: «“Già, bisognerà andarci. Abitano tremendamente lontano”. “Lontano da dove state voi, vorrete dire. Da dove state voi è tutto lontano”». Questa relativa lontananza dal centro, ovvero prossimità al margine, plasma l’arte di Bardino, in quanto, come confessa egli stesso, «il perché e le soluzioni di una ricerca sono sempre dentro alle cose che viviamo, altrimenti sono solo forzature».

Nel suo più recente ciclo paesaggistico (avviato dopo il 2011), di cui l’immagine proposta riassume bene le caratteristiche, Bardino sembra esprimere criteri diametralmente opposti a quelli che devono aver ispirato, intorno al 1550, un architetto come Pirro Ligorio nel progetto di restauro di Villa d’Este a Tivoli. In questo capolavoro del giardino all’italiana predominano la prospettiva rigorosamente centrale e la vue d’ensemble scenografica e severamente simmetrica rispetto alla villa, in un’unità artificiale di edificio, parco e giardino che rivela la rinnovata affermazione storica dell’uomo e della sua razionalità già di stampo illuminista.

Bardino sembra invece voler spostare lo sguardo dal centro ai lati e rappresentare il “dietro le quinte” di quell’unità geometricamente composta, ossia quanto normalmente viene escluso dal cono prospettico, la zona non completamente addomesticata del giardino, gli sterpi e gli alberi cresciuti a ridosso dei muri perimetrali. Nel fare ciò, l’artista evita la tentazione di rappresentare una natura edenica, un mitologico Parnasso o un’idillica Arcadia, secondo i dettami del classicismo, né ricade interamente nel topos della natura naturans dei romantici tedeschi, selvaggia, sublime e carica di pathos. Gli scorci di Bardino non rimandano infatti a paesaggi da cartolina o foto-ricordo, ma ad angoli di bosco qualunque, anonimi, non pittoreschi: ritagli di natura quotidiana non in posa. «La visione frontale delle cose», afferma l’artista, «suscita meccanismi consueti, scontati», mentre proprio le zone liminari e interstiziali risultano più ricche e stimolanti: «Nel paesaggio, come nei rapporti con le persone, può essere interessante volgere lo sguardo a lato, dove le cose, la natura, si rivelano in modo inaspettato».

Benché il concetto di lateralità costituisca il movente della sua pittura, non ne esaurisce tuttavia il senso, né basta, a nostro avviso, per decifrarne gli intenti, che diventano più intelligibili solo se associati al concetto di transito. L’attraversamento, il passaggio, la traversata sono azioni necessarie per muoversi, per lasciare una condizione d’insularità, per varcare un confine, un valico. Il transito esprime inoltre una condizione, appunto di transitorietà, di sospensione e impermanenza, di cambiamento di stato. In questo senso un’altra serie di opere di Bardino (2006-2008) ci offre una chiave di lettura proficua. Qui vengono rappresentate comuni zone di mobilità e consumo: aeroporti, stazioni, aree di servizio, supermercati, luoghi in genere situati nelle periferie (e dunque marginali) e sui quali non si posa che uno sguardo distratto, non finalizzato al piacere estetico; spazi che non sono mai meta di viaggio, ma soltanto appunto di transito. 

Per Bardino la “lateralità” sta dunque soprattutto nei criteri di scelta dei soggetti, non nella composizione stessa, dove, a ben vedere, domina una determinata centralità da cogliere non solo come elemento tecnico e figurativo, ma soprattutto come allusione concettuale. Al centro di questi paesaggi laterali si trovano infatti aperture luminose o spaziali: attraversamenti, probabilmente passaggi di stato emotivo, transiti interiori, dato che l’artista o lo spettatore sono soli dinnanzi a quinte sceniche svuotate della presenza umana. In tali opere, che esprimono il bisogno di traversare oppure un invito a farlo, si avverte intenso il desiderio, la curiosità di sapere cosa c’è oltre l’iconostasi in primo piano. Ciò che viene tematizzato in tutti i cicli pittorici dell’artista è dunque, verosimilmente, il rischio e l’impegno del transito: non paesaggi da guardare, ma da attraversare.

Qualche anno fa Marco Paolini diede un’efficace suggestione sulla visione laterale, paragonandola a un paesaggio osservato dall’ampio finestrino di un treno anziché dal ristretto parabrezza di un’automobile. Eppure la descrizione più perspicace dell’essere in transito resta ancora Sulla strada di Jack Kerouac e un brano, in particolare, che sembra portare a sintesi molti aspetti della ricerca artistica di Bardino. V’è tutto, infatti, in quello sguardo laterale del protagonista, così laterale da essere gettato with one eye: «Sotto un polveroso vecchio albero c’era un’aiuola d’erba verde a prato che apparteneva a una stazione di rifornimento. Chiesi al benzinaro se potevo dormirci, e lui me lo permise senz’altro; così stesi per terra una camicia di lana, ci misi contro la faccia, con un gomito in fuori, e solo per un momento guardai di striscio con un occhio le Montagne Rocciose coperte di neve nel sole ardente» (tr. it. M. de Cristofaro, Milano 1959).


***testo pubblicato in GIDM - num. 4, vol. 35, dicembre 2015***