Der Blick, der ans eine Schöne sich verliert, ist ein sabbatischer. Er rettet am Gegenstand etwas von der Ruhe seines Schöpfungstages. […] Fast könnte man sagen, daß vom Tempo, der Geduld und Ausdauer des Verweilens beim Einzelnen, Wahrheit selber abhängt.

Lo sguardo che si perde nella bellezza di un singolo oggetto è uno sguardo sabbatico. Esso salva nell'oggetto un po' della quiete del giorno in cui è stato creato. […] Si potrebbe quasi dire che la verità stessa dipende dal contegno, dalla pazienza e assiduità con cui si indugia presso quel singolo oggetto.

Theodor W. Adorno

giovedì 26 giugno 2014

Gianluca Di Pasquale


Gianluca Di Pasquale, Bagnante, 2013-2014
olio su tela, cm 150 × 100
Courtesy Galleria Monica De Cardenas, Milano/Zuoz
Foto di Andrea Rossetti


Lo scorcio dipinto da Gianluca Di Pasquale ci immerge in un angolo di paradiso, raccolto e sereno. In un diradamento della foresta lussureggiante i nostri occhi sorprendono una donna solitaria e nuda nelle acque ferme di un lago, inconsapevole dello sguardo altrui e abbandonata al piacere del bagno e della natura.

Il soggetto della bagnante – ritratta sola o più spesso in gruppo – attraversa la storia dell’arte occidentale tracciando un ampio arco stilistico che prende avvio con il recupero della mitologia greco-romana operato dai maestri rinascimentali e legato in particolare ai miti di Artemide e Atteone oppure di Diana al bagno circondata da ninfe e satiri. Il tema si reitera sostanzialmente invariato nella teatralizzazione barocca delle medesime figure; riemerge in epoca neoclassica e simbolista (per esempio nel popolato universo femminile di Ingres e di Puvis de Chavannes) per giungere, attraverso il setaccio realista che lo “secolarizza” e depura di ogni residuo mitologico, direttamente alla rottura compiuta da Manet nel Déjeuner sur l’herbe (1862-63) e alla svolta impressionista, che avrà il suo apice in Renoir e nel ciclo delle bagnanti di Cézanne, i quali, insieme ai proto-espressionisti tedeschi di Die Brücke (in particolare Karl Schmidt-Rottluff e Ernst Ludwig Kirchner), consegneranno il tema, completamente stravolto, alle avanguardie storiche novecentesche.

Come nel celebre dipinto di Manet, anche qui la figura femminile, inserita in una scena bucolica secondo il canone classico, sembra preoccuparsi poco o per nulla del proprio aspetto e del decoro. Ciò conferisce alla scena una pacata tensione erotica, una sensualità lieve e naif, la stessa che proviamo di fronte alle opere di un altro grande pittore francese – malgrado il disprezzo con cui fu accolto il suo lavoro di autodidatta – con il quale Di Pasquale sembra duettare apertamente e mostrare esplicite affinità: Henri Rousseau (1844-1910). I tableaux de jungle d’inizio Novecento, che hanno reso indimenticabile “il Doganiere” , entrano in profonda risonanza con questa serie di esotici paesaggi a olio: la delicata precisione disegnativa delle differenti specie botaniche, l’estrema eleganza della composizione (immaginaria, verrebbe da sospettare), l’elemento fiabesco stemperato in un erotismo avvolgente come l’atmosfera caldo-umida della giungla, annullano infatti la distanza tutta temporale tra i due artisti.

C’è inoltre un aspetto imponderabile, benché inconfondibile, nell’esotismo della flora e del color rosa pesca del cielo al tramonto, che ci induce a definire la quinta scenica predisposta da Di Pasquale più come “giungla” che come semplice “bosco”, anche se l’artista riesce a dileguare il tipico senso di inquietudine (non del tutto assente nelle tele di Rousseau) normalmente associato all’intrico opprimente e soverchiante di alberi e cespugli, rami e foglie. Manca insomma quell’idea di caos, confusione, spietatezza perfettamente evocata e descritta, nel primo decennio del XX secolo, da Joseph Conrad in Cuore di tenebra (1902) oppure da Upton Sinclair, con intenti esplicitamente metaforici, nel romanzo La giungla (1906). Pur evitando eccessi d’ingenuità, Di Pasquale ci presenta una natura benigna e accogliente, dove la vegetazione, ordinata e luminosa, funge da idilliaco palcoscenico pubblico per i gesti privati dell’ignara attrice senza veli.

Nel combinare fascino femminile e amenità paesaggistiche secondo un modello tradizionale, Di Pasquale sembra strizzare l’occhio, in eclatante controtendenza, a un codice culturale inesorabilmente sorpassato, tipico dell’età vittoriana, quando la generale pruderie era accompagnata da una morbosa volontà di “spiare”, di penetrare nel continente ancora misterioso dell’altrui sfera inconscia e sessuale (una volontà di cui la psicoanalisi freudiana, comparsa proprio in quegli anni, è compiuto paradigma). Oggi invece, al suo acme, la logica della sovraesposizione mediatica che regge la civiltà dello spettacolo subisce una torsione radicale: attraverso l’universale condivisione e ostentazione consentita e stimolata dai social network è l’intimità dei singoli a invadere la sfera pubblica. Tutt’altro che reazionaria, la riservata bagnante di Di Pasquale incarna quindi, paradossalmente, un elemento di resistenza al diffuso affanno esibizionistico, perché ormai «fare le cose in segreto», come già denunciava con visionaria lungimiranza Aldous Huxley nel suo romanzo più celebre (Brave New World, 1932), «equivale, in pratica, a non far nulla». 

***testo pubblicato in GIDM - num. 2, vol. 34, giugno 2014***